Il giorno in cui Chelsea Manning ha cercato di uccidersi

Un’ennesima violazione fatta contro una vita già stremata. Le dobbiamo la consapevolezza delle conseguenze del coraggio

Philip Di Salvo
5 min readJul 12, 2016

Di Philip Di Salvo

“La scorsa settimana, Chelsea Manning ha preso le decisione di mettere fine alla sua vita”. Dopo giorni di attesa, in cui nemmeno il suo team legale ha potuto mettersi in contatto diretto con lei, il tentato suicidio di Chelsea Manning in carcere è stato infine confermato da una nota dei suoi avvocati, postata su Twitter da Chase Strangio.

Sono stati giorni di angoscia per le persone vicine alla whistleblower e per chiunque abbia a cuore la sua incolumità, la sua salute, la sua sicurezza e le sorti della sua situazione legale.

Chelsea Manning è stata condannata a 35 anni di carcere per essere la fonte di alcune delle maggiori pubblicazioni di WikiLeaks. I fatti sono noti, come sono noti e confermate le condizioni detentive pesantissime in cui Manning è stata reclusa per mesi nell’estenuante fase pre-processo, durata più di tre anni.

Altrettanto nota è la sua vicenda personale e identitaria e la conseguente, nuova, battaglia legale e umana cui Manning è costretta anche nelle più semplici delle cose, dal suo taglio di capelli alle sue letture in carcere.

La vita di Chelsea Manning rischia di diventare un buco nero.

Un buco nero da cui, ora lo sappiamo, Chelsea Manning ha cercato di uscire nel più tragico dei modi. La preoccupazione ora è che potrebbe succedere di nuovo.

Il disegno di Chelsea Manning della sua cella a Quantico, in cui è stato rinchiso in isolamento per 11 mesi, nel 2012.

Non si tratta qui di discutere di nuovo delle cause, delle motivazioni e delle ragioni che vedono Chelsea Manning nella condizione in cui si trova. Se n’è scritto diffusamente — seppur non abbastanza — e bisogna continuare a farlo, soprattutto in virtù dell’istanza di appello consegnata qualche mese fa. Il processo contro Chelsea Manning è stato a sua volta un buco nero senza copertura mediatica adeguata, senza le dovute attenzioni che un caso a tal punto cruciale avrebbe meritato.

L’appello è l’occasione migliore per rimediare, come giornalisti, a quello che a tutti gli effetti è stato un torto: i media di tutto il mondo hanno infatti beneficiato e continuano a beneficiare dei contenuti che Manning ha reso disponibili all’opinione pubblica tramite WikiLeaks, ma non hanno attribuito alla sorte della loro fonte la dovuta attenzione. E Chelsea Manning è finita in carcere con quella durezza sostanzialmente in silenzio.

Non si tratta di riaprire di nuovo il dibattito giornalismo vs. attivismo peraltro, a detta di chi scrive, chiuso nel migliore dei modi da Dan Gillmor qualche tempo fa:

La libertà di espressione è un diritto di tutti. In un modo dove tutti possiamo parlare ed essere ascoltati — o almeno dovremmo essere in grado di parlare e rendere possibile per gli altri di ascoltare — i giornalisti non hanno più grande dovere che esserne i suoi più ardenti difensori.

Questa è l’ultima fotografia di me — febbraio 2015 — poi ho iniziato la terapia ormonale” — Chelsea Manning

Il punto ora è, invece, generazionale. Chelsea Manning ha 28 anni, l’età di chi scrive. Quando ha scelto di diventare una whistleblower ne aveva 23. Se devo pensare a cosa ha plasmato la visione del mondo della mia generazione, d̶i̶v̶e̶n̶t̶a̶t̶a̶ ̶a̶d̶u̶l̶t̶a̶ cresciuta negli anni delle guerre di Bush, indipendentemente dai punti di vista, poco altro ha determinato un momentum più di WikiLeaks e di quanto consegnatole da Chelsea Manning.

Nel 2010 abbiamo avuto prova del potenziale — troppo spesso altrimenti esaltato ingiustamente e svuotato di significato dalla retorica dell’innovazione — di quello che Internet poteva significare.

Si è trattato di un momento di potenziale realizzato. È stato un momentum, uno snodo, ben più grande del significato di WikiLeaks di per sé. Su cui si può e si deve continuare a discutere.

Il nome di Chelsea Manning è comparso la prima volta nelle cronache per via dei contenuti delle chat con Adrian Lamo che hanno portato al suo arresto. Era il 2010.

Quello che è accaduto a Chelsea Manning nei 6 anni successivi è stato un assurdo buco nero che si è espanso fino al tentato suicidio di qualche giorno fa.

Il giorno in cui Chelsea Manning ha cercato di uccidersi quel buco nero è arrivato a meno di un passo dal chiudersi, attorniato per di più da un assurdo velo di segreto e incertezza. Un ennesimo torto.

Un’ennesima violazione fatta contro una vita già stremata.

Quella di Chelsea Manning è una vicenda che storicizzerà la mia generazione e la capacità che ha avuto di fornirsi una visione del mondo e di darsi un momentum. Non solo per quello che riguarda Internet e l’informazione. Chelsea Manning ha la nostra età. Dobbiamo a Chelsea Manning molto di più dei 600mila file pubblicati da WikiLeaks. Le dobbiamo la consapevolezza delle conseguenze di una forma di idealismo.

Le dobbiamo la consapevolezza delle conseguenze del coraggio.

E le dovremo, se in questo riusciremo davvero a dare un contributo, una fetta di quello che Internet deve continuare a essere. Ma c’è un buco nero che minaccia Chelsea Manning e quello che le dovremo.

Non dovremmo dimenticare nemmeno quell’altro buco nero: Aaron Swartz si è ucciso a 26 anni ormai tre anni fa. “Siamo uno di meno”, aveva scritto quel giorno Tim Berners-Lee. “Aaron Swartz si è levato in difesa della libertà e dell’uguaglianza — ed è stato perseguitato a morte”, ha scritto John Naughton.

Come generazione abbiamo un dovere ed è quello di mandare a memoria qual è il nostro momentum e ricordarci che ora passa da qui e dal carcere di Fort Leavenworth.

La storia e la battaglia di Chelsea Manning potranno non diventare un buco nero solo se non saranno dimenticate, solo se non si cederà, di nuovo, al silenzio. Il giorno in cui Chelsea Manning ha cercato di uccidersi è lì a ricordarcelo.

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