L’ultima pagina del libro di David Carr
Il 12 febbraio 2015 David Carr è nella redazione del New York Times, il suo ufficio. Ha da poco finito di moderare una tavola rotonda con Edward Snowden in collegamento video da Mosca, Glenn Greenwald e Laura Poitras. Carr chiude la serata, si alza in piedi, fa un gesto rivolto a uno schermo sul palco da cui stava parlando fino a poco prima, saluta ed esce di scena. Avrà un malore fatale poco dopo, nel palazzo del New York Times. Nel 2015 David Carr aveva 58 anni e almeno due vite alle spalle.
David Carr era un giornalista del Times, giornale cui era arrivato solo nel 2002 per occuparsi di media. Prima aveva lavorato per testate più piccole, come Atlantic Monthly, New York, il Washington City Paper e il Twin Cities Reader. Per il New York Times, Carr redigeva Media Equation, una rubrica di riferimento per chiunque segua il mondo dei media o abbia un interesse per quello che succede nel giornalismo. Carr era diventato a tutti gli effetti uno dei nomi più importanti per questi temi, una firma influente e un analista stimato da sostanzialmente chiunque nel settore. David Carr, però, non era un giornalista classico, non una grande firma, né un puntuale giornalista di settore. Era tutte le tre cose insieme, ma a differenziarlo dalle categorie era il cuore e l’attitudine, sia nello scrivere che in tutto il resto. David Carr era un ex tossico scampato a morte sostanzialmente certa finito a commentare il giornalismo seduto a una scrivania nella redazione del più importante giornale del mondo.
Ho conosciuto David Carr nel 2010, mentre ero all’università. Ero uno studente pretenzioso che arrivava dalla sua laurea triennale in lettere e che aveva una cosa chiara in testa: fare il giornalista. David Carr era una lettura costante con cui il mio docente di giornalismo, diventato poi il mio capo e il mio Doktorvater, apriva le sue lezioni. David Carr parlava di questioni specialistiche ma riusciva a farne sempre questioni sistemiche e scriveva divinamente. Credo si possa serenamente sostenere che Carr fosse la persona che più di tutti aveva capito cosa stava accadendo nei media, la portata di quei cambiamenti e delle conseguenze che avrebbero portato. Di sicuro, lo aveva spiegato con le parole migliori che si potessero leggere.
Alla fine è andata che il giornalista lo faccio davvero e in quella università ci lavoro. Non ho mai incontrato David Carr ma nel 2015, quando uscì il libretto scritto a quattro mani da me con un altro discepolo di David Carr, chiedemmo ci fosse un pagina per lui. Carr era morto da poco e il nostro libretto parlava di come sarebbe diventato il giornalismo e lo faceva con diverse interviste a persone che facevano lo stesso lavoro di David Carr. Carr era in cima alla mia lista di persone da sentire, ma non rispose mai alle mie mail. Il libretto è dedicato a David Carr e si apre con una delle sue citazioni più note, forse le parole che meglio spiegano che casino può diventare la tua vita quando ci entra il giornalismo:
“Being a journalist, I never feel bad talking to journalism students because it’s a grand, grand caper. You get to leave, go talk to strangers, ask them anything, come back, type up their stories, edit the tape. That’s not gonna retire your loans as quickly as it should, and it’s not going to turn you into a person who’s worried about what kind of car they should buy, but that’s kind of as it should be. I mean, it beats working”
Ci sono diverse citazioni memorabili di David Carr, alcune note altre meno, alcune sul giornalismo, altre sul resto. Il New York Times ne ha raccolte alcune in un pezzo pubblicato a ridosso della sua morte. Il modo migliore per capire David Carr, però, è guardare Page One, il documentario sul giornale per cui lavorava Carr e la crisi del settore. In quel film Carr è la voce narrante e il collante di quello che viene raccontato. Il film parla del Times, di giornalismo e della persona David Carr. Nel film ci sono momenti esilaranti, geniali, commoventi: David Carr che battibecca con i fondatori di Vice; David Carr che parla dei suoi trascorsi con la droga, il fallimento della sua vita precedente. Il lavoro giornalistico di Carr, comunque, parla davvero da sé e qui c’è una raccolta di articoli che è un eccellente punto di partenza per chi non lo conoscesse. Il suo pezzo che preferisco, paradossalmente, non parla di giornalismo, ma di Philip Seymour Hoffman e il suo finale tiene davvero insieme tutto:
“I don’t blame him or condemn him or second-guess him. He did the best he could with everything that he had”
Nel 2008 David Carr ha pubblicato la sua autobiografia, The Night of the Gun. Il libro è un capolavoro per come è scritto e per quello che racconta. Carr lavora su se stesso, scavando a ritroso nei suoi anni bui, costellati da dipendenze, crimine, malattia, fallimenti. Carr è impietoso e non si fa sconti e il suo lavoro di ricerca è puramente investigativo: un giornalista che tratta di se stesso come se lavorasse sulla storia di un estraneo. The Night of the Gun è il libro di un uomo rinato che torna indietro a fare ordine e a scrutare nel suo passato confuso, dimenticato, cancellato dall’inconsapevolezza e dalle sostanze.
Nel libro Carr indaga sulla sua vita e la sua stessa confusione, cercando di mettere insieme i tasselli con l’aiuto delle persone a lui vicine in quel periodo: amicizie autodistruttive, famiglie a brandelli, spacciatori, fantasmi. Il libro racconta una vicenda che si delinea poco alla volta e si fa strada tra falsi ricordi ed elementi ritenuti sedimentati che invece si scoprono essere mera negazione e confusione, compreso l’episodio della pistola che dà il titolo al libro:
If I was wrong about the gun, what else was I wrong about?
La storia di David Carr è una storia di fallimento e rinascita. E presa di coscienza. The Night of the Gun è il punto di consapevolezza, l’accettazione della fine della discesa. The Descent. David Carr era nato nel 1956 a Minneapolis e la città è ovunque nel libro. Bob Mould, un altro dei miei capisaldi, questa volta nella musica, è nato a Minneapolis nel 1960 e nel 1979 ci ha fondato gli Hüsker Dü, che sono esistiti fino alla fine degli anni 80, gli anni centrali di The Night of the Gun. Ho scoperto — con sorpresa, ammetto — che Mould e Carr si conoscevano quando, alla morte di Carr, Mould pubblicò su Facebook l’articolo del Times che annunciava la morte dell’amico commentando “Rest in piece, my friend”. Le traiettorie della mia vita e quelle di David Carr non hanno concretamente quasi nulla in comune, tranne forse il giornalismo, Bob Mould e gli Hüsker Dü. Nel 2016 ho riletto The Night of the Gun, in un periodo che è stato la mia discesa e che The Descent di Bob Mould aveva perfettamente tenuto insieme. Lo scorso maggio ho visto Bob Mould suonare in Spagna. Non sono riuscito a parlarci, ma gli avrei probabilmente chiesto di David Carr e delle discese.
Se c’è un libro che si disvela nella sua ultima pagina, quello è The Night of The Gun. Alla fine del testo, Carr ha raccontato e ricostruito la sua discesa, ha messo il suo punto, parla finalmente con la voce lucida con cui scriveva i suoi articoli per il Times. L’ultima pagina di The Night of the Gun si chiude con una foto di Carr, la compagna e le figlie. Quella è la fine della sua discesa e della sua narrazione. Non so se Carr abbia mai parlato apertamente della sindrome dell’impostore o se la ritenesse una cosa senza cittadinanza nella realtà, ma la sua presa di coscienza alla fine della discesa è la cosa più grande che Carr abbia mai scritto. E continua a parlarmi:
“I now inhabit a life I don’t deserve, but we all walk this earth feeling we are frauds. The trick is be grateful and hope the caper doesn’t end any time soon”